Edoardo Bianchi nato a Milano il 17 luglio del 1865 era cresciuto nell’orfanotrofio dei “Martinitt” (di cui fu per tutta la vita uno dei donatori più generosi) ove gli erano stati insegnati i primi rudimenti della meccanica.
Il giovane artigiano ebbe una premonizione sul futuro del trasporto meccanizzato quando, nell’agosto del 1885 aprì bottega a Milano, in Via Nirone al n.7 e tra strumenti medici e ruote di carrozze, campanelli e attrezzi da cucina, gli capitò di dover riparare una bicicletta.
Capì immediatamente che il velocipede, con la sua efficienza, semplicità ed autopropulsione, poteva costituire il futuro del trasporto e concentrò tutti i suoi sforzi su di esso, sviluppando una propria filosofia: costruire un mezzo di alta qualità con i materiali migliori a disposizione.
Già nel 1888 la sua fama si era sparsa in tutta la città tanto da costringerlo ad allargare la sua officina che aprì in Via Bertani mentre gli affari andavano bene e la sua fama si accresceva di pari passo con la bontà delle sue creazioni: fu, ad esempio, il primo ad adottare, proprio in quell’anno, l’invenzione del veterinario scozzese John Dunlop e ad offrire alla propria clientela un prodotto d’avanguardia.
Aveva di nuovo allargato la propria bottega trasferendosi in Via Borghetto quando al giovane Edoardo capitarono due occasioni ch’egli seppe sfruttare a meraviglia e diedero la svolta definitiva alla sua azienda.
La prima fu quando la Regina Margherita, in vacanza a Monza, lo chiamò alla reggia. La richiesta era quella di insegnarle ad andare in bicicletta. In fretta e furia Edoardo costruì una bicicletta per la sovrana: pesava undici chili, era naturalmente celeste e portava sul telaio lo stemma in oro dei Savoia, aveva le manopole d’avorio ed Edoardo Bianchi la portò in un astuccio di legno foderato di velluto rosso.
L’impatto pubblicitario fu clamoroso: Bianchi fu insignito del titolo di “Fornitore ufficiale della Real Casa” e fu necessario impiantare addirittura una catena di montaggio per soddisfare le richieste di biciclette uguali a quella della regina che gli giungevano anche dalla Spagna, dalla Francia e dal Portogallo.
Il nuovo stabilimento sorse dalle parti della Bicocca ove esisteva una pista e dove spesso dava spettacolo, gareggiando, un altro giovane artigiano, Giovanni Tomaselli, un cremonese, nativo di Fiesco, che a Milano aveva trovato lavoro e si dilettava di ciclismo.
L’amicizia con Tomaselli fu la seconda grande occasione che Edoardo Bianchi seppe sfruttare. Era il 1899 e Bianchi, novello Re Mida che sapeva trasformare in oro tutto ciò che toccava, convinse l’amico, che aveva fatto entrare in società nella fabbrica, a correre il Gran Prix de la Ville di Parigi, un vero e proprio campionato del mondo di velocità che nessuno straniero aveva mai vinto.
Tomaselli, che era già stato campione italiano della velocità, si recò a Parigi insieme ai colleghi Ettore Pasini e Federico Momo e al Bois de Vincennes distrusse letteralmente la concorrenza (81 corridori di 12 nazioni) con una risonanza pubblicitaria simile a quella che si avrebbe oggi vincendo il Tour de France.
Ebbe l’accortezza di lasciar intendere che molta parte del merito delle sue vittorie andava alla sua strepitosa bicicletta celeste e una volta ancora la Bianchi si trovò ad affrontare un incremento delle vendite in tutta Europa che la fece avvicinare addirittura alla Peugeot nella stessa Francia.
Da allora, si può dire, quasi tutti i grandi campioni del ciclismo italiano, da Girardengo a Coppi, usarono le bici della casa milanese che già nel 1912 presentava un catalogo che comprendeva 14 tipi di biciclette mentre già aveva avviato la produzione di motocicli e motocarri, assemblava le moto da corsa per Tazio Nuvolari ed anche la favolosa e lussuosa automobile usata da Papa Pio XI.
Pochi anni prima della seconda guerra mondiale, quando già il grande stabilimento della Bianchi si trovava in Viale Abruzzi, Giovanni Tomaselli, preferì ritirarsi dalla società e tornare nella sua Fiesco ove acquistò quello che era stato il suo sogno sin da ragazzo, la cascina più bella di tutta la zona, l’Abbadia di Santa Marta, ove poté dedicarsi a molte attività soprattutto di carattere umanistico, in collaborazione con i Salesiani che vi fondarono un Istituto Professionale frequentato da moltissimi giovani e con l’appoggio del Vescovo Cazzani.
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